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“Io non ho paura”: dal libro al film

Campi di grano a perdita d’occhio inondati dalla luce del sole rovente dell’estate 1978. Un caldo che toglie il respiro agli abitanti di un piccolo paesino del Sud Italia, Acqua Traverse, ma che non ferma i bambini, sempre immersi a giocare tra le spighe di grano e a ravvivare, con le loro voci, un villaggio altrimenti desolato e sperduto.

Proprio i bambini sono i primi personaggi raccontati da Niccolò Ammaniti nel suo romanzo del 2001 “Io non ho paura“, attraverso il punto di vista di uno di loro, Michele.

Michele Amitrano, anni 9, bambino vivace, di buon cuore e pieno di energia. Bada alla sorellina più piccola, Maria, la cui responsabilità gli è stata affidata dai genitori tutte le volte che la porta con sé per trascorrere interi pomeriggi a giocare con altri bambini. 

Ma la responsabilità di Michele non sarà solo questa. Proprio durante uno dei torridi pomeriggi che opprimono la campagna di Acqua Traverse, il piccolo degli Amitrano è messo davanti a una scoperta tremenda: trova, nascosto in un buco sottoterra, un bambino.

Michele così si ritrova ad affrontare una situazione più grande di lui e a sopportare un segreto troppo difficile da raccontare e, prima di tutto, da capire. Il bambino nel buco infatti (si scoprirà poco dopo) è stato rapito dagli adulti del paesino, per chiedere un riscatto alla sua famiglia che abita su, al Nord.

“Io non ho paura”: il romanzo

La penna di Ammaniti lascia quindi spazio ai pensieri e ai ragionamenti di Michele. Tutta la drammatica vicenda viene vissuta e raccontata attraverso l’innocenza del bambino che non ha paura di affrontare quello che persino per un adulto sarebbe difficile sopportare.

Michele tiene questo segreto per sé e sa che ormai non potrà più dimenticare quello che ha visto.

Ma come fa un bambino di 9 anni a trovare una spiegazione di fronte alla vista di un altro bambino rinchiuso sotto terra?

Come si fa a non avere paura?

Ammaniti è molto abile nel trattare il delicato tema utilizzando gli strumenti che impiegherebbe un bambino per giustificare una tale bruttura. Allora, nella fantasia di Michele, sono i mostri che hanno portato lì Filippo – così si chiama il bambino rapito; o forse la spiegazione si trova in altre storie fantastiche:

Forse io e lui eravamo gemelli. Eravamo alti uguale e sembrava avessimo la stessa età. Quando eravamo nati, mamma ci aveva presi tutti e due dalla culla, si era seduta su una sedia e ci aveva messo il seno in bocca per darci il latte. Io avevo incominciato a succhiare ma lui, invece, le aveva morso il capezzolo, aveva cercato di strapparglielo […] e la mamma urlava per casa: – È pazzo! È pazzo! Pino, portalo via! Portalo via! Uccidilo, che è pazzo.

Papà lo aveva infilato in un sacco e lo aveva portato sulla collina per ammazzarlo, lo aveva messo a terra, nel grano, e doveva pugnalarlo ma non ce l’aveva fatta, era sempre figlio suo, e allora aveva scavato un buco, ce lo aveva incatenato dentro e ce lo aveva cresciuto.

Mamma non sapeva che era vivo. Io sì.

Michele insomma cerca costantemente di capire perché un bambino, proprio come lui, sia costretto a subire quella terribile situazione. Ma infondo, per lui, una spiegazione non c’è.

Io non ho paura: dal romanzo al film

Nel 2003 Gabriele Salvadores ha diretto la trasposizione cinematografica del romanzo, realizzando un film di una così grande potenza espressiva da vincere ben 2 David di Donatello.

Il confronto tra il libro e il film

Se nel romanzo Ammaniti alterna uno stile ricco di descrizioni, chiaro e incisivo, a quello caratterizzato da un ritmo incalzante e carico di pathos, nel film questa doppia anima è conferita dalle bellissime ed emozionanti musiche di Ennio Morricone, Ezio Bosso e Pepo Scherman.

Più che i dialoghi, sono l’intera scenografia e i suoni a raccontare la vicenda. I pensieri e le storie create da Michele per rincorrere una spiegazione che tarda ad arrivare sono semplicemente sussurrati nel buio della sua stanza sotto il lenzuolo bianco, mentre il grano, il caldo palpabile e le colline sono tutti elementi di grande impatto visivo che narrano da sé.

Un film in cui parlano le immagini

Salvadores quindi fa parlare le immagini, scene cariche di colori caldi, dal giallo dorato dei campi di grano al rosso della maglietta di Michele.

Sono colori che fanno da contraltare a quelli scuri e freddi del buco in cui si trova Filippo. Il pallore del bambino e la sua denutrizione infatti contrastano con l’abbondanza della vegetazione che è fuori, nella realtà ipocritamente serena; il bianco della pelle e quello della tunica con cui è coperto il corpicino di Filippo sono il forte mezzo espressivo con cui nel film vengono rappresentati l’orrore e la cruda realtà di una vicenda così drammatica.

Il rapporto tra Michele e Filippo

È la “storia di un’infanzia perduta“, come ha definito lo stesso regista. Il focus è quindi sui piccoli innocenti e la camera, tenuta sempre ad altezza bambino, trasporta sapientemente sulla pellicola la volontà di Ammaniti di rappresentare la vicenda proprio attraverso di loro.

In particolare, il film si concentra molto sul rapporto tra Michele e Filippo. La bellissima scena in cui finalmente il coraggioso Michele porta fuori dal buco Filippo, tra le spighe di grano, ne è un esempio.

È un momento di libertà e di gioco, di recupero di quell’infanzia perduta.

Il film inoltre, rispetto al romanzo, mette in maggiore rilievo il rapporto tra i due bambini alla fine della vicenda, scrivendo quindi un finale, attraverso un momento di felicità espressiva, che mostra perfettamente il significato del titolo del romanzo/film “Io non ho paura“.


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E se sei interessato alle trasposizioni cinematografiche dei romanzi, ti consiglio di dare un’occhiata alla nostra rubrica Dal Libro al film 😉

Al prossimo articolo!

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