Storia

La prostituzione al tempo delle case chiuse in Italia

Nel XIX secolo e nella prima parte del XX secolo la prostituzione femminile era non solo tollerata…ma anche regolata dalla legge!

La privacy al tempo delle case chiuse

In Italia in particolare le professioniste del sesso svolgevano la propria attività in case chiuse, luoghi di svago introdotti nel nostro Paese da Camillo Benso conte di Cavour intorno al 1860. Il termine “case chiuse” deriva dal fatto che le finestre delle stanze in cui operavano le prostitute erano sempre chiuse, appunto, con le tende accostate per motivi di ordine pubblico e di tutela della privacy dei frequentatori.

Tutto sotto controllo

Le ragazze che lavoravano nei bordelli erano schedate sia a livello amministrativo che sanitario: un medico le visitava due volte a settimana e tutte le sere agenti in borghese si presentavano per controllare che tutto fosse in ordine. Lo Stato incassava le tasse sulle concessioni delle licenze e sui ricavi delle prestazioni offerte.

Prestazioni, tariffario e turnazione

Il lavoro di una prostituta era pagato a “cottimo”: più si lavorava, più si guadagnava. Una ragazza giovane e in buona salute arrivava a guadagnare anche 40 “marchette” al dì, gettoni in ottone forato al centro consegnati alle donne dalla tenutaria del bordello direttamente in camera, prima della consumazione. La quantità di marchette era proporzionata alle prestazioni fornite: a fine turno, le ragazze di vita si presentavano alla cassa per cambiarle in moneta contante.

Il tariffario era esposto nella sala d’attesa e contemplava “impegni normali”, “impegni doppi” o impegni orari che potevano coprire fino a mezza giornata. Erano previste anche agevolazioni particolari per specifiche categorie di clienti quali militari, studenti e “giovanotti di primo pelo”.

Tra gli avventori tipici delle case di tolleranza si potevano incontrare i “flanellisti”, coloro cioè che non usufruivano di servizi che molto spesso non potevano permettersi e che dunque entravano nel locale solo per dare un’occhiata alle signore. Speciali cartelli come quello qui sotto erano a loro destinati.

L’intera squadra di prostitute era detta “quindicina” perché osservava turnazioni sistematiche di 15 giorni; al termine di questo periodo subentrava un altro gruppo. In tal modo era possibile evitare incontri frequenti con gli avventori e si frenava sul nascere, ove possibile, lo sbocciare di scomodi rapporti sentimentali tra clienti e lavoratrici.

Solo le professioniste più brave e apprezzate potevano rimanere in servizio per un tempo continuativamente più lungo, garantendo così maggiori guadagni e pubblicità al locale.

Curiosità! In Italia, durante la dittatura fascista, le prostitute di alto livello lavoravano anche per i servizi segreti raccogliendo le confidenze di politici e diplomatici stranieri che frequentavano i loro bordelli!

La fine delle case chiuse in Italia

In Italia i postriboli sono stati gestiti dallo Stato fino al 20 febbraio 1958, giorno in cui il Parlamento italiano ha abolito le case di tolleranza con la legge 75/58. L’intento di Angelina Merlin, senatrice socialista promotrice della disposizione legislativa, non era tanto quello di eliminare il mestiere più vecchio del mondo quanto quello, piuttosto, di abrogare lo sfruttamento del meretricio. Già nel 1949, infatti, l’Onu era dell’idea che “la prostituzione e il male che l’accompagna, il traffico di persona, sono incompatibili con la dignità ed il valore della persona umana.”

Per la Merlin e i suoi sostenitori era quindi impensabile che l’Italia patrocinasse la prostituzione per trarne guadagno. Dopo mesi vissuti in clandestinità a causa delle minacce ricevute, la senatrice veneta si fece fotografare la mattina del 20 settembre 1958 mentre apriva le persiane di una casa chiusa, gesto simbolico che sanciva la fine di un’epoca e di una rendita annuale allo Stato pari a 100 milioni di lire, 1,1 milioni di euro!

Smarrendo la diritta via: i luoghi della perdizione in Italia

Dove si trovavano le più note “capanne di assi” nostrane?

A Venezia, nemmeno a dirlo, era sufficiente fare un giro nei pressi del “Ponte delle Tette” per scegliere una casa d’appuntamenti: le donne, a seno nudo, si affacciavano alle finestre di quello che era un vero e proprio quartiere a luci rosse per attrarre avventori facoltosi.

A Firenze uno dei posti più vivaci e caratteristici in tal senso era “Piazza della Passera”. Napoli poi arrivò ad annoverare fino al 1958 circa 900 case chiuse! Si può tranquillamente dire che il capoluogo campano portò avanti con successo la tradizione romana dei bordelli di Pompei definendo nel tempo un’area a luci rosse, la più grande d’Europa, che si estendeva dai Quartieri Spagnoli a via Chiaia.

A Torino in zona Quadrilatero Romano, pieno centro, Via Conte Verde era fitta di lupanari. Gli estimatori del settore che passavano per Roma si fermavano invece a Borgo Pio, al confine con il Vaticano. Donnine allegre pullulavano anche a Milano in zona Brera, tra via Fiori Chiari e via Fiori Scuri.


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